Bersani, nella conferenza stampa, ha rimarcato il difetto di Renzi che avevo annotato nel post precedente: «Lui ha sempre il difettuccio di dire "noi e loro", ma noi siamo noi tutti noi, loro è Berlusconi. Noi siamo una grandissima squadra plurale». Cosa difficile da digerire, certo, per un grimpeur della politica che fa del personalismo la sua carta da giocare mediaticamente. Che si dice il nuovo ma non si schioda dal passato, un passato recentissimo, berlusconiano. Come, pure, rimarca ad un orecchio attento Bersani, dicendo, in linea con i suoi dieci punti, che il futuro «è fatto di partecipazione, il passato da personalismo»; costretto oltretutto dalle circostanze a ricordargli che «non c'è bisogno di fuoco amico, l'avversario è la destra».
E poi la bega sui conteggi, la richiesta renziana di «fare chiarezza sul risultato», che dimostra una sfiducia imbarazzante verso il suo stesso partito. Indipendentemente dal fatto che, come lui stesso dice, domenica prossima si riparte «zero a zero». E tutto perché secondo i calcoli "infallibili" dei suoi sarebbe al 39% e non al 35%. Certo, Renzi ha anche aggiunto che «tre punti in più o in meno non spostano il senso di ciò che é accaduto, ma é giusto - dice - fare chiarezza, ogni voto conta». Già, perché l'effetto televisivo, gli hanno detto, è diverso; così si perde un importante effetto "testa a testa", sui media, dove ciò che conta non è essere ma apparire, anche per quello che non si è.
«Non mettiamo briciole di problemi in questa grande giornata, ci penseranno i garanti», ha detto Bersani, e poi «noi siamo gente per bene». Acqua sul fuoco, certo. Ma Renzi resta il bambino che s'arrabbia se perde e porta via il pallone.
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